5.2. Situation des femmes : histoire du droit de vote
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À l’occasion de la fête du 8 mars, voyons un peu le chemin parcouru en Italie pour la réalisation du droit des femmes  : un progrès qui continue, l’égalisation des droits politiques, mais des freins que nous verrons ensuite, la permanence d’un machisme indélébile en particulier dans la classe politique. La lutte doit continuer . 1) Il diritto di voto politico alle donne (Histoire du droit de vote politique des femmes) a) Dall'unità d'Italia a fine Ottocento La battaglia delle donne per l'ottenimento del voto politico fu molto più lunga di quella che riguarda l'elettorato amministrativo ed ebbe inizio nell'Ottocento quando l'ideologia sansimonista divulgava le sue idee sull'emancipazione femminile. Giuseppe Mazzini conosceva l'ideologia sansimonista e riteneva la donna “l'Angelo della famiglia. Madre, sposa, sorella la donna è la carezza della vita, la soavità dell'affetto diffuso sulle sue fatiche, un riflesso sull'individuo della provvidenza amorevole che veglia sull'Umanità”[4]. Da questo può sembrare che Mazzini esaltasse più che altro la figura della “madre educatrice”[3] ma d'altra parte egli era convinto che gli uomini non avessero nessuna superiorità. Insieme a Mazzini, un'altra figura di rilievo a favore dell'emancipazionismo fu Salvatore Morelli (soprannominato « il deputato delle donne »). Nel 1867 Morelli presentò il primo disegno di legge che prevedeva la concessione del voto politico alle donne. Egli proponeva la parificazione a livello giuridico tra maschi e femmine: fu per questa ragione che tale progetto e anche un successivo del 1875 non furono presi in considerazione. Nel 1867 Mazzini in una lettera alla sua amica e suffragista inglese Clementia Taylor scriveva che «  nulla si conquista, se non è meritato  » e nello stesso anno in una lettera a Morelli affermava che i tempi erano ancora prematuri. Non gli si poteva dar torto perché in Italia il movimento degli emancipazionisti era tutt'altro che coeso ed alcune donne che ne facevano parte non erano favorevoli a ottenere diritti politici. Nello stesso anno la Mozzoni fondò la Lega promotrice degli interessi femminili e inviò al Parlamento una nuova petizione che si risolse con la riforma elettorale del 1882 : fu un insuccesso per le donne. Per un po' di tempo in Parlamento non si parlò più dell'estensione del suffragio alle donne. In una conferenza a Bologna del 1890 Anna Maria Mozzoni espresse nuovamente tutto il suo dissenso verso uno stato che esercitava la giustizia, ma in modo sbilanciato in quanto sosteneva i diritti solo di una parte di esso cioè quella maschile. Inoltre affermò di essere stufa delle «  accuse di codardia, d'inferiorità intellettuale, di mancanza di senso giuridico, di incapacità in una grande quantità di cose  ». La Mozzoni continuò poi dicendo : «  siamo rientrate in noi stesse, abbiamo esaminato i nostri pregi ed i nostri difetti e ci siamo permesse di esaminarvi anche voi, spogli del diritto divino, che è scaduto affatto nella nostra opinione ed abbiamo trovato che la nostra ragione procede al par della vostra con la forma sillogistica; che i problemi che travagliano la vostra coscienza, sono gli stessi che turbano la nostra; che la libertà che voi amate, l'amiamo anche noi; che i mezzi coi quali voi conquistaste la vostra, furono indicati dagli stessi principii che debbono rivendicare la nostra  ». L'impegno della Mozzoni non è stato sufficiente a modificare la condizione del diritto di voto alle donne sul piano legislativo, ma ha dato un importante contributo a sostegno dei movimenti in materia di suffragio femminile che caratterizzeranno il Novecento. Questi movimenti che in molti paesi dell'Europa si poterono classificare come attività dei gruppi di suffragette, in Italia assunsero caratteri meno irruenti perciò le suffragette italiane rimasero un fenomeno di poco conto. b) Dal 1900 al fascismo Dopo gli insuccessi di Morelli, nel 1903 un nuovo disegno di legge che prevedeva l'estensione del diritto di voto anche alle donne fu firmato dal repubblicano Roberto Mirabelli e discusso nel giugno 1904 e nel dicembre 1905. Mirabelli era profondamente convinto che fosse necessaria una riforma del sistema elettorale e fece del suffragio universale uno dei punti cardine del suo programma politico. Nel Novecento i disegni di legge riguardanti l'estensione del suffragio iniziarono a essere considerati maggiormente rispetto a quanto era stato fatto nel secolo precedente perché erano entrati in Parlamento gruppi di cattolici e di socialisti i quali da sempre trattavano con riguardo le questioni più strettamente legate al popolo. Nel 1906 viene proposta dal Comitato Nazionale pro-suffragio Femminile una nuova petizione scritta da Anna Maria Mozzoni e firmata da diverse celebri italiane (tra le quali Maria Montessori). Le donne sempre più consapevoli che non poter votare equivaleva a non esistere approfittarono del silenzio legislativo per chiedere l'iscrizione alle liste elettorali e alcune domande vennero accolte suscitando critiche. Il silenzio legislativo era apparentemente dovuto a una svista del legislatore, ma nessuna coscienza pubblica avrebbe consentito alle donne di votare. Nel 1908 il Comitato Nazionale pro-suffragio organizzò un convegno. Tra i temi più discussi figurarono l'assurdità di concedere il voto agli uomini che sapevano leggere e scrivere, ma non alle donne che avessero studiato (a cura della presidentessa del Comitato Giacinta Martini Marescotti), il vantaggio che aveva portato la concessione del suffragio femminile nei paesi che l'avevano adottato (di Teresa Labriola). Dal 1908 la socialista Anna Kuliscioff si schierò a favore dell'estensione del suffragio e nel 1910 si oppose suo marito Filippo Turati (anche capo del partito di entrambi): egli scrisse che era favorevole all'estensione del diritto di voto alle donne, ma era convinto che non fosse ancora giunto il momento di concederlo. La Kuliscioff rispose che vi era poca ragione nel rimandare la concessione del diritto di voto alle donne per convenienza politica. Le socialiste avendo l'appoggio del loro partito presero sempre meno parte alle associazioni femminili pro-voto delle quali costituivano l'anima, decretandone una scarsa attività che fu risentita dalla Legge Giolitti del 1912. Nel 1912 infatti, nel pieno di una discussione sul suffragio maschile, Turati annunciò che auspicava una legge elettorale nella quale fossero inclusi «  tutti gli italiani, indipendentemente da differenze di carattere esclusivamente anatomico e fisiologico  ». Da questo dibattito sulla riforma elettorale si ottenne il suffragio universale maschile dei cittadini maggiorenni (che avessero compiuto i 21 anni), che fossero in grado di leggere e scrivere o che avessero preso parte al servizio militare ; inoltre, a partire dal trentesimo compleanno, il voto veniva esteso anche agli analfabeti. Delle donne non si faceva neanche menzione e questo decretò a partire dal 1913 un incremento dei Comitati pro-voto e delle manifestazioni. Tuttavia lo scoppio della prima guerra mondiale mise nuovamente a tacere i movimenti a favore del suffragio. Con l'avvento della Grande Guerra l'assetto sociale cambiò : le donne dovettero sostituire gli uomini che erano partiti per il fronte e così facendo presero parte a lavori che la tradizione aveva sempre riservato al genere maschile. Nel 1919 Don Luigi Sturzo (fondatore del Partito Popolare) inseriva nel programma del suo partito l'estensione del diritto di voto alle donne, tracciando un confine netto con la tradizione clericale e schierandosi quindi anche contro Papa Pio X che già nel 1905 affermava : «  non elettrici, non deputatesse, perché è ancora troppa la confusione che fanno gli uomini in Parlamento. La donna non deve votare ma votarsi ad un'alta idealità di bene umano […]. Dio ci guardi dal femminismo politico ». Il partito di Don Sturzo però non era l'unico ad aver inserito nel suo programma il diritto di voto per le donne: anche nel manifesto dei Fasci di combattimento, e nella Carta del Carnaro (con la quale Gabriele D'Annunzio governava Fiume) figurava questo punto. Le donne, durante la guerra, avevano dato prova di riuscire a sostituire bene gli uomini e il Governo, sentendosi obbligato a dimostrare loro un po' di gratitudine, il 9 marzo 1919 promulgò la legge Sacchi con la quale si eliminava la predominanza dell'uomo nella famiglia e fu approvato l'ordine del giorno Sichel che prevedeva l'ammissione delle donne al voto sia amministrativo che politico su presentazione di un disegno di legge. Il disegno di legge in questione venne letto in aula nell'estate del 1919, fu approvato e divenne legge nel settembre dello stesso anno. Sembrava che le donne avessero vinto la loro battaglia ma non fu così perché questa legge non arrivò mai in Senato a causa della chiusura anticipata della legislatura dovuta alla questione fiumana : il che significava che tutte le leggi «  in attesa di approvazione  » decadevano. c) Dal fascismo al secondo dopoguerra Come prevedeva il Programma di San Sepolcro dei Fasci di combattimento, il diritto di voto doveva essere esteso alle donne. Mussolini inizialmente sembrava intenzionato a concedere questo diritto «  cominciando dal campo amministrativo  ». L'intenzione si tradusse poi in un nulla di fatto con la riforma podestarile (i «  podestà  » nominati sostituivano i sindaci eletti) del 1926 e e la riforma elettorale del 1928 : questa seconda legge in particolare toglieva definitivamente il diritto di voto anche agli uomini. Il fascismo condusse l'Italia nella seconda guerra mondiale e, com'era già successo durante la Grande Guerra, le donne dovettero rimpiazzare gli uomini. Questa volta però il cambiamento stravolse irreversibilmente lo scenario sociale a cui le tradizioni facevano riferimento. Le donne erano infatti dotate di una maggiore consapevolezza di sé e di autostima nei confronti delle loro potenzialità : queste qualità permisero loro di partecipare combattendo alla guerra e presero parte alla Resistenza, anche alla Resistenza armata. In questo clima, su iniziativa del Partito comunista, nel novembre 1943 vennero fondati a Milano i Gruppi di Difesa della Donna e per l'Assistenza ai Volontari della Libertà: un'organizzazione costituita da donne di ogni fede politica e di tutti i ceti sociali che si univano per manifestare contro la guerra, assistere famiglie in difficoltà, supportare i partigiani. d) Dal 1944 al 1946 Nel luglio 1944, i Gruppi di Difesa furono riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia e nello stesso anno il giornale «  Noi Donne  » dava voce alle pubblicazioni ufficiali. Nel mese di agosto i partiti capeggiati da Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana) e Palmiro Togliatti (Partito Comunista) si dimostrarono favorevoli alla questione dell'estensione del suffragio anche alle donne : fu per loro merito che prese forma il decreto De Gasperi-Togliatti, meglio conosciuto come decreto Bonomi. Nel mese di settembre del 1944, sempre per iniziativa del Partito comunista, a Roma venne fondata l'Unione Donne Italiane (UDI), nella quale vennero inseriti i Gruppi di Difesa della Donna : questa macro-organizzazione avrebbe dovuto rendere unitaria la campagna per il raggiungimento dei diritti politici. L'UDI era però di ideali più tendenti verso Sinistra, fu per questa ragione che Maria Rimoldi, presidentessa delle donne cattoliche, propose di staccarvisi e dar vita a una nuova organizzazione di ispirazione cristiana: nasceva il Centro Italiano Femmine (CIF). Nell'ottobre 1944 la Commissione per il voto alle donne dell'UDI e altre associazioni presentarono al governo Bonomi un documento nel quale parlavano dell'inevitabilità di concedere il suffragio universale e verso la fine del mese sorse il Comitato Pro Voto volto a far conquistare il diritto di voto alle donne e fare in modo che esse potessero ottenere cariche importanti nelle amministrazioni pubbliche e negli enti morali. Nel mese di novembre del 1944, UDI, CIF e altre organizzazioni (dimostrando di saper collaborare al di là di alcune differenze che le caratterizzavano) commissionano a Laura Lombardo Radice la scrittura di un opuscolo intitolato «  Le donne italiane hanno diritto al voto  ». Successivamente le rappresentanti del Comitato Pro Voto consegnarono una petizione al Governo di Liberazione Nazionale nella quale chiedevano che il diritto di votare e di essere elette venisse esteso alle donne per le successive elezioni amministrative. Il 20 gennaio 1945, Togliatti, che non voleva lasciare tutto il merito alla Democrazia Cristiana, scrisse una lettera a De Gasperi nella quale affermava che fosse necessario porre la questione del voto alle donne nell'imminente consiglio dei ministri. A tale lettera De Gasperi rispose : «  ho fatto più rapidamente ancora di quanto mi chiedi. Ho telefonato a Bonomi, preannunciandogli che lunedì sera o martedì mattina tu e io faremo un passo presso di lui per pregarlo di presentare nella prossima seduta un progetto per l'inclusione del voto femminile nelle liste delle prossime elezioni amministrative. Facesse intanto preparare il testo del decreto. Mi ha risposto affermativamente  ». Il 30 gennaio 1945, nella riunione del consiglio dei ministri, come ultimo argomento, si discuteva del voto alle donne. La questione fu esaminata con poca attenzione ma la maggioranza dei partiti (a esclusione di liberali, azionisti e repubblicani) si dimostrò favorevole all'estensione. Il 31 gennaio 1945 venne emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane che avessero almeno 21 anni. Le uniche donne ad essere escluse erano citate nell'articolo 354 del regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza : si trattava delle prostitute schedate che lavoravano al di fuori delle case dove era loro concesso di esercitare la professione. Il 21 ottobre 1945,  papa Pio XII, in presenza delle presidenti del CIF, si dimostrò favorevole al suffragio femminile affermando : «  ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione [..] per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione  ». Con queste parole Pio XII, adeguatosi ai tempi, aveva interrotto la tradizione clericale in merito alla questione. Il decreto Bonomi tuttavia non faceva menzione dell'elettorato passivo : cioè della possibilità, per le donne, di essere votate. L'11 febbraio 1945, l'UDI compose un telegramma per Bonomi nel quale si richiedeva di sancire anche l'eleggibilità delle donne. Dovette trascorrere poco più di un anno prima che esse venissero accontentate e potessero godere dell'eleggibilità che veniva conferita alle italiane di almeno 25 anni dal decreto n. 74 datato 10 marzo 1946 : da questa data in poi le donne potevano considerarsi cittadine con pieni diritti. Le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate a votare si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in 5 turni, mentre le prime elezioni politiche (si trattava del Referendum istituzionale monarchia-repubblica) si tennero il 2 giugno 1946. La legge che consentiva elettorato attivo e passivo alle donne diede immediatamente i suoi frutti, infatti, già alle prime amministrative vi furono donne elette nelle amministrazioni locali, come Gigliola Valandro (Democrazia Cristiana) e Vittoria Marzolo Scimeni (DC) a Padova  o Jolanda Baldassari (Democrazia Cristiana) e Liliana Vasumini Flamigni (Partito Comunista Italiano) a Forlì. Anche alle successive elezioni, quelle per l'Assemblea Costituente, non mancarono, tra gli eletti, le donne. Curiosità Il 10 marzo 1925, quando alla Camera si discuteva dell'estensione del diritto di voto, il deputato Giacomo Acerbo, leggendo una relazione sui principali avvenimenti che avevano caratterizzato la storia del diritto di voto alle donne, non dimenticò di citare la petizione del 1906 ma affermò che fosse stata scritta «  dal Mozzoni  » : attribuendo così sesso maschile alla maggiore emancipazionista italiana. L'8 marzo 1946 le donne potevano votare ed erano vicine all'ottenimento dell'eleggibilità. In quel clima di contentezza la mimosa venne associata per la prima volta ai festeggiamenti della Giornata internazionale della donna per merito di Teresa Mattei. In data 2 giugno 1946, il Corriere della Sera pubblicava tra gli altri un articolo intitolato «  Senza rossetto nella cabina elettorale  » con il quale invitava le donne a presentarsi presso il seggio senza rossetto alle labbra. La motivazione è così spiegata : "Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell'umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po' di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio  ». La tabella riportata dimostra quanto sia stato lungo e faticoso il percorso delle donne per ottenere il diritto di voto. C’è voluto più di un secolo perché nella quasi totalità dei paesi le donne raggiungessero l’uguaglianza politica e in alcuni stati si tratta di un risultato recente. e) Dopo il 1948 La Costituzione italiana del 1948, redatta dall’Assemblea Costituente alla cui elezione avevano partecipato anche le donne, afferma il principio dell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, « senza distinzioni di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali » (articolo 3). La struttura della famiglia, afferma la Costituzione, si fonda sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, i quali hanno pari dignità e gli stessi diritti e doveri, primo fra tutti quello di «mantenere, istruire ed educare i figli ». Perché si potessero attuare questi principi era necessaria una riforma radicale del codice civile approvato nel 1942 dal regime fascista e improntato al principio della supremazia del capo famiglia, al quale soltanto si riconosceva la potestà sui figli. Non fu facile riformare quegli articoli del codice e bisogna aspettare il 1975 perché la figura del capo famiglia venga eliminata e sia fatto valere il principio costituzionale dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Negli anni Settanta si attuarono altre significative riforme nel campo dei diritti civili delle donne:                     Una volta acquisita sul piano giuridico la parità delle donne, si trattava di garantire che questa venisse anche praticamente attuata. Le abitudini culturali e i modelli di comportamento in vigore nella società sono infatti talmente radicati che la parità dichiarata per legge rischiava di rimanere solo sulla carta. Non basta una legge per superare la tradizionale divisione, basata sul sesso, dei ruoli e dei compiti all’interno della famiglia, divisione per cui la donna deve continuare ad occuparsi da sola della casa e dei figli anche quando svolge un’attività lavorativa. La stessa cosa va detta per quanto riguarda l’ingresso delle donne in attività e carriere tradizionalmente maschili, si pensi soltanto all’attività politica e al numero ancora molto basso di donne presenti nei parlamenti e nei governi. Per correggere queste distorsioni viene introdotto il concetto di «  pari opportunità  » e di azioni positive, come la legge del 1991 sulle «azioni positive per realizzare la parità uomo-donna nel lavoro» che istituisce corsi di orientamento e qualificazione professionale per le donne, stabilisce norme nella gestione del personale che tengano conto delle esigenze delle donne (part time, orario flessibile, ecc.), promuovere l’attivazione di strutture particolari (asili nido, scuole materne ecc.). Un interessante dibattito su questo tema si è sviluppato intorno alla proposta di introdurre nelle leggi elettorali meccanismi che prevedano una quota fissa di donne da eleggere.      L’uguaglianza politica, ottenuta dalle donne con il diritto di voto, è stata più formale che sostanziale: i dati della tabella evidenziano il permanere dell’esclusione delle donne dai ruoli della politica attiva, anche se dagli anni Settanta in poi si nota un aumento della percentuale di seggi parlamentari da esse occupati. (Documento realizzato da Wikipedia e completato da J.G. l’8 marzo 2016) 2) Compte-rendu d’un livre sur l’histoire du machisme en Italie  : prochain article des Nouvelles de ces derniers temps    
* la legge sul divorzio (1970), * la tutela delle lavoratrici madri (1971), * l’istituzione dei consultori familiari (1975), * la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (1977), * la legge sull’interruzione di gravidanza (1978).
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